“Racconti da una RSA”: la fatica di amare da lontano
Spesso nei momenti di difficoltà capita di far fatica ad esprimere al meglio le nostre emozioni e sensazioni. Molte persone riescono a farlo a parole, altre invece attraverso messaggi, corrispondenze e lettere proprio come stiamo osservando nelle ultime settimane grazie ai contributi che ci giungono quotidianamente.
Esistono poi testimonianze scritte da chi ogni giorno sta vivendo questa situazione a 360 gradi direttamente sul campo, vale a dire nelle strutture che ospitano anziani e persone che da più di un mese non vedono la propria famiglia. Serve infatti avere coraggio, farsi forza ma soprattutto apprezzare i piccoli gesti in un momento duro, come emerge dalla lucida ma sensibile lettera di Alba Bonetti, Direttrice Gestionale della Residenza per Anziani Santa Lucia.
“Da sempre, fin da quando nasciamo, il gesto che ci fa sentire sicuri è un abbraccio. Nei momenti difficili della nostra vita cerchiamo sempre rifugio nelle braccia di una persona amata.
Da un mese e mezzo dobbiamo invece convivere con la fatica di proteggere le persone che amiamo tenendole lontane. Più sono fragili, più sentiamo il bisogno di toccarle, di vederle, di accarezzarle. Ci hanno spiegato che non dobbiamo farlo, che ne va della loro salute. E a loro come lo spieghiamo? Loro come vivono questa distanza imposta?
Gli ospiti di una RSA sono spesso affetti da decadimento cognitivo, sono disorientati, non ricordano dove sono, hanno bisogno di ritmi abitudinari, di routine che li rassicurino. Appigli per procedere in un’esistenza che si fa sempre più insicura. Le voci, gli sguardi, il contatto con gli operatori, le visite dei familiari sono punti di riferimento importanti per convivere con le molte infermità.
Non poter più vedere i familiari, non riuscire più a riconoscere gli operatori con il viso coperto per tre quarti da una mascherina, percepire un contatto sconosciuto perché le mani, perennemente infilate nei guanti, appaiono gommose… Se per un attimo mi fermo a pensare e mi immedesimo nei miei ospiti, in mia madre ultra-novantenne ricoverata in una RSA, mi chiedo come devono sentirsi. Privati di tutto ciò che, per i molto piccoli e i molto anziani, è vitale: la vicinanza, l’immediatezza di una mano che afferra la tua, di una guancia che si appoggia al tuo volto per darti un bacio.
Stare lontani è igienico, è salutare, ma è una crudeltà. La distanza sociale è una distanza innaturale.
Una misura necessaria per la salute collettiva diventa, guardata sul piano soggettivo, assurda: una qualunque delle madri novantenni ricoverate in RSA, se fosse interpellata, sceglierebbe di vedere i propri figli anche a rischio di prendere il COVID. Ma nessuno ha chiesto il loro parere. E loro stanno lì, confinate sul loro piano di degenza – ulteriore misura per contenere il possibile contagio – aspettano notizie dai figli e invariabilmente chiedono: “Fino a quando durerà?”. Trattengo la carezza vietata e, mentendo, rispondo “Ancora pochi giorni”.
Con mia mamma una videochiamata non sarebbe possibile, non è in grado neanche di parlare al cellulare. Assisto con commozione alle chiamate delle altre mamme, invidiando un po’ le loro figlie: le anziane signore vedono la figlia e accarezzano lo schermo del telefonino, ma parlano con me perché non riescono a capire che dallo schermo arriva anche la voce.
Un signore mi ha scritto “Ma a mia moglie chi ci pensa con affetto?”. Ecco, agli anziani non possiamo dare l’affetto che danno i familiari con la loro presenza, possiamo preservarli e cercare di portarli indenni al di là di questo terribile guado.
Non so però cosa sarà per loro a lungo andare l’assenza dei volti amati, forse si sentiranno abbandonati irrimediabilmente, in una terra di nessuno dove le parole sono inutili e i gesti non sono abbastanza.
Ogni tanto penso che, se scamperà al contagio, forse mia madre non mi riconoscerà definitivamente più.
Sarà il prezzo da pagare per averla ancora un po’ con me”.